Questo è un post che mi attirerà ire, strali e insulti di vario tipo, ma, onestamente, chissenefrega.
Il ristorante Le Calandre, quasi dieci anni fa, è stato mio mio primo ristorante tre stelle: ancora adesso, mentre scrivo, ricordo quel mercoledì a pranzo e buona parte dei piatti che mangiai quel giorno.
Da allora sono tornato almeno una volta l’anno e, anzi, era uno dei due locali (l’altro era La Peca) dedicati ai festeggiamenti importanti: l’ultimo fu nell’agosto del 2020, quando il Nano compì 18 anni.
Quella cena, ovviamente parametrata a un ristorante tre stelle Michelin, non fu particolarmente brillante, anzi, si intravedeva un pochino di appannamento, il cui culmine fu il c.d. main course a base di maiale che, sia nell’estetica, che nel gusto, ricordava un piatto da trattoria.
Da allora, ogni ritorno, come detto con cadenza pressoché annuale, ha confermato tale appannamento, a sua volta confermato anche dal mio ultimo pranzo di pochi giorni fa.
Partiamo da una premessa, ossia, come poco sopra detto, dal fatto che non stiamo parlando di una trattoria, ma di un ristorante tre stelle Michelin e, quindi, il parametro di giudizio deve essere rapportato a tale status: ciò che è tollerabile (mi si passi l’uso di tale termine) da Nando il Buzzicone, non è tollerabile, appunto, in un tre stelle Michelin.
Tutti i piatti, eccetto Bob Spoon e Labbralinguadentipalato, come risulta dalle foto, si sono dimostrati di una bruttezza estetica e di una banalità disarmante.
Nel ceviche di branzino capesante e calamari al pompelmo rosa e nocciola, per quanto il pompelmo rosa non fosse particolarmente possente, si faticava a distinguere gli ingredienti che, al palato, anestetizzato dal freddo del sorbetto, risultavano tutti pressoché monocordi.
Che poi, se è pompelmo rosa, come fa a essere così arancione? Anche il gusto non mi pareva così tipicamente amaro…
Le lumache in umido di verdure con polenta croccante e lingua salmistrata, vincono il primo premio per il piatto più brutto del pranzo.
Al di là dell’estetica, a fronte di lumache cotte divinamente, il loro sapore non risultava in alcun modo percepibile per via dell’umido di verdure, completamente asfaltante e che copriva la qualunque, lasciando, peraltro, una bocca discretamente untuosa che nemmeno il sapore aromatico e leggermente salato della lingua salmistrata (peraltro molto buona) riusciva a ripulire.
I nastri di pasta primavera e gli spaghetti al caffè con biete e acciughe erano ben fatti, ma, oggettivamente, si tratta di piatti molto didascalici per mangiare i quali, certamente, non ti metteresti in macchina e non spenderesti quasi 300 euro…
Sono sincero, quando ho visto il menù con la possibilità di scegliere il sandwich di moeche con birra al lime, sono rimasto molto perplesso, ma la mia golosità ha avuto il sopravvento.
Partiamo dalla premessa che, per quanto mi piaccia la stagionalità dei prodotti, non sono un talebano sul punto, soprattutto se si tratta di prodotti comunque reperibili in altre parti del mondo.
Le moeche, tuttavia, sono un prodotto esclusivamente tipico della laguna veneziana, reperibili unicamente nei mesi primaverili (tra aprile e maggio) e autunnali (tra ottobre a novembre): in altri termini, adesso siamo totalmente fuori stagione e, quindi, verosimilmente si tratta di prodotti surgelati (non andrebbe indicato sul menù?).
Al di là di ciò, la bellezza gastronomica della moeca è data dalla delicatezza del suo sapore che, infatti, nelle preparazioni tipiche, prevede che siano lavorate il meno possibile.
In questo piatto, invece, la maionese all’ostrica copriva totalmente il sapore della moeca che, quindi, risultava essere qualcosa di croccante, ma tendenzialmente insapore.
Tra l’altro, proprio la maionese all’ostrica, utilizzata sia all’interno del piatto che per tenere ancorata la cialda al piatto, probabilmente per via di una sosta un pochino troppo lunga al pass, ha inumidito la cialda di semi che, quindi, quanto ho cercato di afferrarla con le mani per portarla alla bocca, mi si è quasi smontata.
Molto divertente e piacevole il gioco al cioccolato 2025, ossia labbralinguadentipalato.
Servizio meno attento del solito.
Ipnotico l’olio servito con il pane caldo (veramente buonissimo): l’aggiunta di essenza di rosa damascena creava un contrasto con l’amaricante dell’olio che dava letteralmente assuefazione.
Per la prima volta in vita mia ho finito tutto l’olio!
Non male, ovviamente parametrato al prodotto, lo Scioardonè a firma Alajmo a 60 euro, ossia, appunto, uno chardonnay friulano.
Anzi, trovo particolarmente lodevole l’idea di proporre dei vini a marchio proprio a prezzi assolutamente concorrenziali: vanno benissimo per un pranzo di lavoro quando si vuole bere un bicchiere onesto, senza aver paura di non finire la bottiglia.